L’emergenza coronavirus ha messo in luce anche l’arretratezza digitale, tecnologica della società italiana. E Giosuè Cremonesi, uno dei soci di N3 Hack For Business (società informatica di Codogno), spiega così l’importanza dello sviluppo di un’informatica che sia al servizio dell’uomo.
Come in un paio d’ore in N3 avete risposto all’emergenza restando operativi?
I nostri strumenti di lavoro sono da sempre configurati per essere accessibili ovunque, con attrezzatura aziendale o propria dei collaboratori, attraverso la rete: fa parte del nostro modello di lavoro, e dal canto nostro non abbiamo mai avuto dubbi sull’importanza di concepire “il computer dell’ufficio” come una semplice “porta” verso l’operatività. Il giorno in cui abbiamo svuotato gli ambienti e le postazioni dell’ufficio è stato sufficiente accendere il computer ed è proseguito tutto come prima: il tempo di arrivare a casa.
Nel tessuto economico, avete riscontrato arretratezza sotto il profilo tecnologico?
Ci sono le dovute eccezioni, ma in generale la situazione è sconfortante e lo è da sempre: in questo frangente emergenziale, purtroppo, tante aziende sono state colte all’improvviso e questa mancanza è esplosa come una bomba. Manca l’informatizzazione e la cultura di base, molto spesso – altrettanto spesso l’investimento in infrastrutture e in sistemi software viene considerato secondario o marginale, quando invece il tessuto stesso di buona parte delle nostre vite professionali si è via via digitalizzato a livello globale. I servizi informatici e la cultura ad essi legata dovrebbero essere sempre considerati un investimento alla pari di un affitto, o una spesa “obbligatoria” come quella del commercialista. Per mille ragioni, invece, questo non viene fatto, spesso i sistemi sono obsoleti o le competenze stesse sono quasi inesistenti: è terribile pensare a questa emergenza come un test sulla funzionalità degli uffici e della nostra preparazione, ma tocca considerare anche questo aspetto che mette il carico su un danno già piuttosto consistente.
Quali sono i servizi gestibili da remoto?
Le attività “dematerializzabili” sono davvero un’infinità: praticamente la quasi interezza di quelle che si svolgono in un ufficio, passando dall’amministrazione fino all’area commerciale, il marketing e la comunicazione, fino alle relazioni interpersonali, le riunioni e gli incontri con i clienti. Con qualche strumento e un minimo di pratica oggi potremmo svuotare qualsiasi ufficio. È un fatto culturale più che operativo. Ovviamente è una considerazione nel merito, una miriade di attività non possono essere gestite da remoto, ma con il tempo di ripensare i modelli di lavoro, investimenti sufficienti e competenze c’è buona probabilità che quasi tutto possa essere fatto da una postazione o con il minimo spostamento.
E in ambito pubblico?
Localmente sono stati allestiti a tempo record dei semplici sistemi di dialogo e di diffusione delle notizie: l’urgenza, ed è comprensibile, era quella di verticalizzare le comunicazioni in modo che si riducesse al minimo il caos sui social e la pandemia di informazioni sbagliate… di cui conosciamo la pericolosità. Il modello in grande, cioè nazionale, ha avuto a breve giro il supporto delle grandi aziende (Google, Facebook ecc) per dare evidente priorità ai contenuti “ufficiali” o ministeriali rispetto a migliaia di contenuti pubblicati quotidianamente. La rapidità di esecuzione comunicativa, nel momento d’allarme, non copre però la storica inefficacia dei prodotti digitali a disposizione dei cittadini italiani, che sono un modello in negativo di come va progettato, ad esempio, un portale per il pubblico. Sicuramente l’informatica non è la soluzione, ma è uno dei percorsi più efficienti per permetterci di ripensare il presente se non il futuro stesso. In certi contesti è tristemente lo specchio della realtà: si urla alla “startup” e non si sa inviare una email.
di Sara Gambarini – tratto da Il Cittadino